Di come Don Tinto perse la fede

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(2011)
Se proprio era inevitabile, e forse lo era, Don Tinto avrebbe preferito perderla in un incidente, come succede a tanti. Un ubriaco entra in autostrada contromano, fa secco tuo fratello che non ha mai fatto nulla di cattivo in vita sua, quindi Dio dov'è? Sarà che la sua parrocchia era nei pressi di un casello, ma Don Tinto ne ha conosciuti parecchi che hanno perso la fede così. Molti addirittura si sentivano obbligati a venire a spiegarglielo al confessionale, Don Tinto mi spiace, lei è tanto una brava persona, ma mia figlia è stata spappolata da un tir che ha invaso la carreggiata, prova evidente che Dio non c'è.

In questi casi il sacerdote professionale abbozza una smorfia di contrizione, protesta di non voler neanche tentare di consolare un dolore inconsolabile, farfuglia qualcosa sul mistero della provvidenza, e nel caso di Don Tinto si torce le mani nell'oscurità del confessionale, perché la voglia di tirare due ceffoni lo tenta fortissimo. Non dico alle elementari, eh, ma almeno dalle medie in su dovrebbe essere chiaro che i suoi disegni sono un filo più complessi e imperscrutabili delle statistiche sulla mortalità del traffico. Ma insomma signorino, lo scopri oggi che i tir ammazzano le persone, e che Dio in linea di massima non tira nessun freno d'emergenza? Il Dio in cui hai creduto fino a ieri non interviene negli incidenti stradali, e fino a ieri la cosa non ti turbava nemmeno. Poi un giorno ti toccano gli affetti e all'improvviso sai più teologia di San Tommaso, ma va', va', che la tua fede non era poi gran cosa se basta un autosnodato a disintegrarla.

E tuttavia almeno in casi del genere puoi prendertela con l'autosnodato. Mentre Don Tinto chi biasimerà? Sé stesso, soltanto sé stesso. La fede, non sa neanche dire quando l'ha persa esattamente. L'ultima volta che ricorda di averla vista era lì, sulla scrivania, tra i moduli della dichiarazione dei redditi e il rendiconto annuale della scuola materna (in rosso fisso). Rammenta in effetti di essersi detto che non era il posto adatto per una cosa tanto importante; che andava custodita con più attenzione, e di averla d'impulso spostata... dove? Maledetto impulso, non bisognerebbe mai spostare le cose senza pensare al quadro generale. Che poi finiscono in fondo ai penultimi cassetti vuoti che piano piano si riempiono di altre cose importanti che è meglio mettere in un posto al sicuro, e dopo qualche mese valli più a trovare, in mezzo a tutto quel casino di cose ugualmente importanti.

Imbarazzante, ma è così: Don Tinto non ha perso la fede in un incidente, per una delusione, al termine di una crisi, durante una malattia. L'ha persa un giorno qualunque che fuori pioveva, i conti non tornavano, la bici era sgonfia, c'erano formiche in cucina e la crepa dell'intonaco in soggiorno si stava allungando. In chiesa il riscaldamento non funzionava bene, benché il tecnico spergiurasse il contrario: bisognava farne venire uno più capace, ma questo equivaleva a offendere un parrocchiano, la sua famiglia, le sue zie generose con la questua eccetera. L'organo, un gioiellino di tardo Settecento inspiegabilmente rimasto lì, era mal temperato, e i Beni Culturali lo avevano diffidato a chiamare qualsiasi altro accordatore tranne quello di loro fiducia, esosissimo; al solo pensiero Don Tinto preferiva chiudere a chiave la tastiera e non pensarci più, ma questo significava concedere altro spazio all'azione giovanile e alle loro chitarre frastornanti, non ce n'era mai una accordata all'altra, mentre distribuiva meccanicamente il Corpo di Cristo Don Tinto malediceva il suo orecchio non assoluto, ma comunque esageratamente raffinato per le necessità di un sacerdote di provincia. O forse stava schedulando le benedizioni quaresimali a domicilio? o buttando giù tre idee per l'omelia di domenica? o pianificando la sagra, organizzando la pesca benefica per la sagra, cercando i premi per la pesca benefica, identificando gli sponsor adatti che avrebbero potuto offrire i premi... Oppure stava dormendo, anche i preti dormono. Don Tinto aveva necessità di otto ore filate, sennò si appisolava in confessionale. Magari mentre leggeva compieta gli si erano chiusi gli occhi, magari aveva pensato che cinque minuti di sonno non avrebbero offeso N. Signore, anzi, poteva essere un sistema per parlare meglio con lui (con molti Santi funzionava), ma in luogo di un rapimento estatico Don Tinto era crollato schiacciando il naso sul salterio, sbavando sul versetto 31 del Salmo 119; e quando si era svegliato tre ore dopo non ricordava più dove aveva messo la sua fede, in che cassetto si trovasse. Poco male, pensò, mica l'ho buttata via. Salterà fuori prima o poi.

Lo si dice di tante cose che ci sembrano importanti, ma che alla fine non usiamo quasi mai. Un sacerdote più zelante di Don Tinto avrebbe stravolto i cassetti, gli scaffali, le mensole, la cassaforte della Canonica, l'archivio parrocchiale; avrebbe buttato tutto all'aria finché non avesse trovato l'unica cosa fondamentale, la fede! Don Tinto invece aveva una parrocchia da mandare avanti e per prima cosa pensò che il mattino dopo doveva svegliarsi presto, c'era da salire al campeggio per celebrare una messa oppure fare il tour settimanale delle estreme unzioni, tutte cose importanti e tranquillamente fattibili anche senza la fede personale, che comunque sarebbe saltata fuori prima o poi, insomma, mica l'aveva buttata via.

Invece non saltò fuori più, e, quel che è peggio, Don Tinto non riuscì mai a trovare il tempo per svuotare i cassetti, dare aria agli armadi e tutto il resto. Non che non gli dispiacesse non avere la sua fede a disposizione, caso mai ci fossero montagne da spostare: ma bisogna dire che nessuno gli chiese mai gesti così spettacolari. Bisognava invece preparare l'ora di religione alla scuola media, i ragazzini diventavano sempre più insidiosi con le loro domande; ordinare paramenti nuovi, non troppo vistosi ma neanche troppo moderni perché tanto la gente mormora comunque; portare la panda dal meccanico; lunedì sera c'era la riunione con gli altri parroci della zona nord della diocesi; martedì un'ecografia all'addome, mercoledì il corso prematrimoniale. E poi bisognava confessare, comunicare, pregare, senza più fede ma comunque con professionalità, ché l'ultima cosa che serve ai parrocchiani è un prete con le turbe di coscienza.

Provò i ritiri spirituali, le scalate in solitaria, le vacanze al mare, ma non serviva a niente: Dio era senza dubbio ovunque e quindi anche in vetta ai monti e sotto agli ombrelloni, ma la fede di Don Tinto rimaneva incastrata in qualche intercapedine del suo studio, era lì che bisognava mettersi a cercarla. Il punto è che ogni volta che tornava in quella stanza maledetta c'era una telefonata da fare o ricevere, un peccatore da confessare, un malato da consolare, un affamato a cui non poteva mica dire: “Torna tra un po', prima di sfamarti occorre ch'io ritrovi la mia fede”. In mezzo a tutte queste piccole preoccupazioni, era Don Tinto a sentirsi sempre più simile a una montagna che nessuno si sarebbe azzardato a spostare.

Alla fine gli unici momenti in cui Don Tinto riusciva a pensarci era quando gli capitava di fare due chiacchiere con uno scettico. Ne incontrava un po' a tutti i livelli, nel confessionale o dal dottore e ai dopocena tra colleghi. Più o meno continuavano a dire le stesse cose, sempre con l'aria di riferire chissà quale enorme novità scientifica: perché Dio consente il male? E l'evoluzione? Il Big Bang? Benché avesse imparato a dribblare tutte queste obiezioni già in seminario, Don Tinto si sentiva onorato che qualcuno continuasse a proporle proprio a lui: evidentemente visto da fuori doveva sembrare una di quelle travi solide che non oscillano, ma possono solo spezzarsi una volta accettata l'inconsistenza dei propri fondamenti.

E invece la trave era marcia dentro. Gli scettici lo blandivano, credevano che Don Tinto avesse ancora una fede da potersi perdere davanti a un ragionamento astratto, o all'osservazione del dolore. Ma se perse la fede, Don Tinto la perse tra un modulo di rimborso e un estratto conto; la smarrì nella polvere che si posava sul raccoglitore della corrispondenza e la perpetua non osava spolverare. Non la perse di fronte allo spettacolo osceno di un bambino che muore, ma nel fastidio cronico delle coliche renali. Che il mondo di Dio fosse pieno di sofferenza, lo aveva accettato sin dal seminario; quello che allora non aveva previsto, è che fosse pieno di moduli e di piccoli appunti, di bici sgonfie quando occorre fare un giro rapido, e chitarre scordate, il telefono che resta senza credito quando devi fare una chiamata importante, il call center che ti prende in giro, la comitiva di pellegrini che al ritorno si lamentano dell'albergo che gli hai consigliato tu (è cambiata gestione), i reumatismi, il cigolio degli scuri della canonica che lo sveglia nel cuore della notte perché i fermi si sono smurati, bisogna chiamare un artigiano e non ce n'è uno solo onesto, e insomma tutti questi piccoli fastidi e preoccupazioni corpuscolari, nessuna delle quale era degna di una lamentela ad alta voce, ma che tutte insieme costituivano l'inferno in terra.

Quando fu il suo giorno di morire, nel suo letto, adeguatamente drogato affinché il dolore non gli togliesse la lucidità, pensò che forse finalmente aveva un po' di tempo per riflettere, e raccomandarsi a Dio; così chiuse gli occhi e lo chiamò. Ma se ne pentì immediatamente, come chi in un pomeriggio d'estate chiama una vecchia fiamma e mette giù prima che suoni libero. Con che faccia poteva disturbarlo, dopo che per tanti anni non era riuscito a trovare una mezza giornata per cercarlo in mezzo alle fatture, i telegrammi, il calendario con le messe prenotate, la classifica dei chierichetti, l'ordine del giorno del consiglio pastorale, il pin del bancomat. Sperò che nella sua infinita misericordia Dio, oltre alla fede, desse un'occhiata anche al mestiere. Poi si ricordò che non era neanche sicuro di essere stato un buon prete: non riusciva mai a finire il giro delle benedizioni entro il venerdì Santo e malgrado tutti gli sponsor e le pesche benefiche il bilancio della scuola materna era sempre più rosso, rosso inferno (fu il suo ultimo pensiero).

La parrocchia rimase vacante per un paio d'anni, finché non arrivò un pretino curioso, slavo o baltico, con un alito che sapeva sempre un po' d'acqua di colonia, orfano di madre e ammaccato dal padre, cresciuto in seminario ed espulso dalla sua qualsiasi nazione in circostanze non chiarissime. Quando entrò nella canonica la prima cosa che notò fu la confusione dell'ufficio al piano terra, un bugigattolo che avrebbe funzionato meglio da tavernetta, uno spazio per i più giovani con le playstation i divanetti le riviste eccetera, un luogo dove interagire senza troppi freni. Tanto più che, a parte una consolle di mogano massello, era tutto impiallacciato senza qualità, roba da regalare immediatamente al primo ente benefico che si assumesse la spesa del trasporto.

Fu appunto mentre guardava i volontari caricare che Don Pavel notò una busta gonfia caduta in fondo nel cavo di un comò a cui avevano estratto i cassetti. La fece rapidamente sparire nelle maniche della tonaca, pregando silenziosamente che non fosse una mazzetta di vecchie lire fuori corso. Ma quando fu solo e l'aprì, ci trovò soltanto la fede di Don Tinto. A lui non serviva più, così Don Pavel se la tenne, per tutti i quarant'anni in cui rimase arciprete di quella parrocchia, stimato e rispettato da tutta la comunità, e persino dai non credenti, per gli esempi di generosità e rettitudine che seppe offrire e persino per le guarigioni e i miracoli che gli furono attribuiti: tanto che a Roma si pensa già di farlo Beato.

FINE

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"Quindi, Don Tinto, tu sei morto", replicò ammirata Verola, "non lo sapevo, avresti potuto avvertirmene quando ti ho invitato. O devo dedurre che siamo tutti morti qui, e aspettiamo le bare che ci portino via?"
A quel punto un brivido gelido percorse le schiene dei quattro candidati.
"Mia signora", rispose l'ex parroco, "anche il mio racconto è la storia di una vita che non ho vissuto; o perlomeno non interamente".
"Quello che più mi stupisce del tuo potente racconto - potente come sonnifero, intendo - è il fatto che tu abbia potuto pensare a raccontare la vita di un depresso prete di provincia, dopo che avevo trovato noiosa quella di una prostituta transessuale".
"Mia Signora, stasera ho messo il mio cuore a nudo, davanti a lei: se il racconto non le è piaciuto, non le piaccio io, ed eliminarmi immediatamente sarà cosa buona e giusta".
"Hai sbagliato gioco, Padre, se pensi di essere tu qui per mettere alla prova me. Eppure ammetto che c'è qualcosa nel tuo racconto, che ti salverà anche a questo turno. Prof. Esso, Mària, fate un passo avanti...

[Continuawwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwww]
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Roveti in bianco e nero

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L'educazione religiosa, 3

(Riassunto delle puntate precedenti: lasciate perdere le puntate precedenti. Inutili. La storia comincia adesso).
È tempo di fare entrare uno dei personaggi principali dell'Educazione Religiosa di Saul, vale a dire la cattiva maestra preferita di tutti noi, la televisione. Saul le vuole bene, e ammette di avere imparato tantissime cose da lei; ma vogliamo anche un po' parlare delle mazzate che ha preso? Saul si sente ancora i bozzi nel cervello. Poi nella vita si va avanti, si fa finta di niente, senz'altro era peggio crescere al tempo della scarlattina, della tbc. Però che il tv color non avesse effetti collaterali, eh, questo no. Non potete dirlo. I bozzi ce li avete anche voi.

I posteri faticheranno a capire questa cosa. Ammesso che gli interessi, ai posteri (nessuno ne sa mai niente, dei posteri). In fondo era un elettrodomestico come un altro, via, portava un po' di rumore e di colore, e non se ne possono sottovalutare le potenzialità propagandistiche, sì, ma... non ci siamo capiti. Qui stiamo parlando di qualcosa di molto più profondo e più violento. Lo sapete che i bambini della generazione di Saul facevano sogni in bianco e nero? Se è per questo anche i loro genitori, cresciuti a pane amore e cinematografo parrocchiale. Oggi ormai siamo talmente abituati all'idea del “bombardamento mediatico”, e a portarci il laptop in bagno, che la percentuale di tempo passato da Saul e i suoi genitori davanti a schermi in bianco e nero ci sembra ridicola. Un'oretta al giorno, chi meno chi più. Tutto il resto della loro vita la vivevano a colori. Però sognavano in bianco e nero. È una cosa che fa spavento, a voi non fa spavento? Vabbe', voi non vi stupite più di niente.

Il cinque del quarto mese dell'anno trentesimo, il profeta Ezechiele vede un uragano arrivare da nord. Dentro c'è un turbinìo di fuoco, e nel turbinìo quattro esseri di sembianza umana, ma provvisti di zoccoli e quattro ali ciascuno (e mani sotto le ali). Gli esseri hanno quattro facce ciascuno: una di uomo, una di leone, una di toro e una di aquila. Di fianco a loro, un complicato incastro di ruote di topazio. Sopra di loro, un firmamento, e oltre il firmamento s'intravede quell'immagine di Dio dalla quale il profeta saggiamente preferisce distogliere lo sguardo. Di solito a questo punto il divulgatore laico inserisce una battutina, del tipo: ma che si era mangiato la sera prima il profeta Ezechiele? Che tipo di funghi raccoglieva? Che tipo di fumi inalavano, gli ebrei della cattività, durante i loro sacrifici? Non lo sappiamo. Ammettiamo pure che il sogno sia frutto della fantasia di Ezechiele: mica male come fantasia, no? Lo credereste che il sacerdote di un popolo contadino sia in grado di mettere insieme dei sogni così? C'è l'insistenza sul mondo animale che è più che prevedibile in una cultura agricola; l'aspetto orgiastico (vagamente peccaminoso) dell'ibridazione bestiale. Più sorprendente è l'elemento geometrico (che di solito associamo al razionalismo ellenico), ma in fondo stiamo parlando di ruote, anche i contadini di Babilonia le montavano ai carri. Insomma, nel sogno Ezechiele non fa che rielaborare cose che ha già visto (tranne forse i leoni, animali leggendari). Però il risultato è talmente delirante che Ezechiele non può dubitare nemmeno per un istante di essere davanti a un messaggio di Dio. Il caso di Ez è quello classico di un uomo antico che ha di fronte le libere associazioni del suo inconscio e, non riconoscendole, le scambia per Dio. Questo cosa c'entra con la televisione? Niente.

Ma sono abbastanza sicuro che se Ezechiele fosse nato ai tempi di Saul, oltre a disporre di molti più elementi da combinare (pantere, dinosauri, corsari, cow-boys, astronavi, marziani), li avrebbe sognati in bianco e nero. Ecco, ma puoi veramente credere in un Dio che ti parla in bianco e nero? No, secondo me no. Era come se il nostro inconscio, parlo dell'inconscio della generazione di Saul, tarandosi sul B/N avesse trovato una specie di valvola di sfogo. Anche davanti a un sogno angosciante, o delirante, od orgiastico, il B/N ti rassicurava, ti diceva tutto ok: queste cose non possono succedere nella realtà, quindi non sei nella realtà. Sei dunque davanti a un Dio? Noooo, ci mancherebbe. Sei soltanto davanti alla televisione. Saul non sognava cose brutte o paurose. Sognava di essere davanti alla tv e guardare cose brutte o paurose. Non è proprio la stessa cosa, anche se nei sogni non si può cambiare canale (del resto neanche in quelle vecchie tv si poteva).

Finché la tv rimase in bianco e nero, il piccolo Saul non poteva avere visioni. Al massimo poteva sognare film stranissimi, ma i film dei grandi sono sempre un po' stranissimi. Ci siamo persi, in quegli anni, qualche dozzina di profeti visionari. (Sarebbe curioso saperne di più. Sarebbe curioso sapere se Hitler o Wojtyla sognassero a colori o in BN. Gli esseri umani per milioni di anni hanno sognato a colori, poi per qualche decennio sono passati in bianco e nero, e prima che la cosa diventasse oggetto di una seria ricerca neuropsichiatrica, la parentesi è finita). Voi che avete paura dello switch da analogico al digitale, ahah, Saul vi ride in faccia. Lui ha vissuto ben altro switch, il suo inconscio è passato dal BN ai colori proprio negli anni più delicati dell'infanzia. Abbiamo detto che il B/N lo proteggeva. Ma un bel giorno il B/N non ci fu più... (continua, più lento della vita).


Tutte le puntate fin qui.
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La novantanovesima pecorella

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L'educazione religiosa, 2

Continua da qui. Per farla breve: Saul è un tizio che ha succhiato la religione dal seno materno.

L'aver, per così dire, succhiato la religione dal seno materno, ha messo Saul in una condizione particolare. Diciamo che credere in Dio non gli costa nessuna fatica: nessun “investimento emotivo” (direbbero gli psicoterapeuti). Come se fosse stato impostato “cattolico” di default (direbbero gli ingegneri). Una specie di aristocratico della sua religione: l'ha ereditata alla nascita e sarebbe pronto a lasciarla invariata agli eredi. Non ha bisogno di chiedere segni al suo Dio, che è roba da generazioni malvagie (Lc 11,29): nessuna necessità di roveti ardenti o madonne piangenti, anzi; a tutte queste ha sempre visto con una certa diffidenza. Sin da bambino. Di tutte le fole che gli raccontò la catechista, un'anziana signora con un certo talento narrativo, quella che ricorda più volentieri è l'avventura di un esorcista locale, che indagava su un'apparizione mariana. Insomma, c'era questa persona che si dichiarava visitata dalla Madonna, che le spirava tante parole buone e dolci, ma l'esorcista non ne era convinto, e continuava a interrogarla, finché... finché il demonio (perché era il demonio alla fine!), spazientito da tutti questi colloqui, non diede di matto e cominciò a ispirare sapidi bestemmioni; e mentre l'invasata veniva condotta via in una probabile camicia di forza , l'esorcista, placido perrymason, si gustava il tuo trionfo: “L'avevo sempre saputo”. Il demonio vestito da vergine, come il lupo della favola, che s'infarina le zampe per farsi aprire la porta dalle pecorelle...

Sono un gregge i cattolici, è vero: ma contrariamente all'immagine che gira negli ultimi tempi, non è che aprano la porta alla prima madonna che si presenta. Sanno essere diffidenti, persino scettici, a modo loro. Non come certi che magari si professano agnostici e poi fanno le corna o leggono l'oroscopo: le pecorelle della chiesa cattolica credono in tante cose, ma si definiscono anche per le cose in cui non credono. Soprattutto fino a qualche anno fa, quando Wojtyla non era ancora l'anziano rimuginatore dei segreti di Fatima. Per dire, la Madonna di Medjugorje non è tuttora omologata. Lo stesso Padre Pio ha dovuto sanguinare parecchio per farsi accettare nel club. E anche la Sindone è un'optional: ci credi se ti va, ma nessuno ti obbliga.

Apparente controsenso di una religione fondata da visionari invasati dallo Spirito Santo, ma poi appaltata nei secoli a generazioni di anziani scettici e prudenti. Saul capisce che dietro c'è, appunto, il senso di appartenenza a un'aristocrazia della fede. C'è chi per credere ha bisogno di vedere segni nel cielo, sangue nei costati, Madonne che piangono, e, chissà perché, devono piangere sangue. Tutto questo è ammesso; in determinate epoche (non le migliori) è persino incoraggiato, ma in definitiva resta un atteggiamento infantile, roba da pastorelli, da... parvenus. Saul non ne ha bisogno, e in un'altra epoca probabilmente avrebbe fatto carriera come inquisitore di provincia, torturando più o meno psicologicamente gli invasati finché non sputano bestemmie. Tuttora, se c'è qualcosa che malsopporta è proprio lo zelo dell'ultimo arrivato, il belato entusiasta della centesima pecorella, Giuliano Ferrara che gli spiega i dogmi di fede, Paolo Brosio che gli mostra la Madonna, dico, Paolo Brosio. Certe volte Saul vorrebbe veramente disporre delle risorse di un inquisitore seicentesco, e andarli a trovare. Perché questa gente è snervante, incontra sempre Dio proprio nel preciso istante in cui la vita li ha messi spalle al muro, e zac! Colpo di fulmine. Saul con Dio ci ha passato la vita intera, e sa che è tutto molto meno romantico di quanto si dica in giro: portarsi Dio a scuola, a far la spesa, in vacanza, un fardello mica da ridere. E questi dilettanti cosa vogliono? Chi li ha invitati? Ecco, questo è quello che definirei approccio aristocratico alla fede. C'è un piccolo problema.

La sua religione è la meno aristocratica in assoluto.

Sei cristiano da una vita? Dio se ne frega. Ti giudica alla stessa stregua di quello che si è appena convertito. Controlla pure sul Vangelo, vedrai che le cose stanno così. La Chiesa sarà anche gestita da anziani scettici. Ma i sacri testi mostrano chiaramente una predilezione populista per i matti, i visionari, insomma, i parvenus. I convertiti dell'ultima ora, che sono i più fanatici e pericolosi di tutti. Gesù preferisce sempre gli ultimi arrivati ai banchetti (Matteo 22,1-14); se gestisce una vigna, paga l'operaio stra-ritardatario con lo stesso salario di quello che è arrivato puntuale (Matteo 20-1,16). Le 99 pecorelle tranquille lo annoiano, lui passa la notte a cercare quella smarrita (Matteo 18,12-14). E poi il figliol prodigo. Le prostitute, i pubblicani, insomma, cani e  porci. Nel Vangelo gli unici a fare una brutta figura sono proprio le caste sacerdotali, gli anziani sicuri e tranquilli della loro fede ereditaria, scribi farisei e sadducei. Gesù non li sopporta. San Giovanni non li trova né caldi né freddi, quindi li vomita (Apocalisse 3,15-17). Il Cristianesimo ha qualcosa di schizoide: se ti senti un buon cristiano, probabilmente non sei davvero un buon cristiano. Ma quando lo capisci (di non essere un buon cristiano), forse sei sulla buona strada... purché non te ne accorga, altrimenti siamo daccapo...

Nascere nella fede non ha fatto di Saul un santo. Piuttosto una comparsa nella Leggenda Santa di qualcun altro: Saul è la 99ma pecorella, il fratello senza gloria che rimane col padre a lavorare, il primo che sarà l'ultimo. È cresciuto in una parrocchia. È stata la sua seconda casa per molti anni. Ha visto la vigna del prete segata e asfaltata, la canonica rifatta, la chiesa restaurata, mentre lui si alzava di qualche centimetro (non di molti), e intorno a lui roteava un vortice di gente che andava e tornava. Lui restava lì, suonava la chitarra. Molti se ne partivano, delusi o semplicemente annoiati. Alcuni ritornavano, o arrivavano da fuori, convertiti di fresco. Molto spesso sulla loro strada c'era qualche sfiga, un incidente, un congiunto morto, e nonostante questo avevano tutti l'umore più alto di Saul. Perché portavano in dono alla comunità una Fede nuova di zecca, una fede pazzesca, da spostare le montagne (alcune montagne furono in effetti spostate), una fede che Saul ammirava, ma sinceramente non invidiò mai. Si ricordava della favola della sua vecchia catechista, ed era programmato alla nascita per diffidare dell'entusiasmo dei neofiti, e dell'entusiasmo in generale. Alcuni erano talmente pervasi che si fermavano in zona solo un po', diretti a qualche eremo o verso una carriera sacerdotale. Saul li faceva passare, dalla sua postazione laterale al presbiterio: lui suonava la chitarra, e lentamente vedeva questi roveti ardenti bruciare e consumarsi. Più rapida e forte era la fiamma, meno ci metteva a bruciare il combustibile. Saul amava paragonarsi a un ceppo tignoso e anche un po' umido, più fumo che fiamma, ma ben disposto a durare tutta la notte. In realtà non è andata esattamente così.

Questo in effetti è solo un lato della storia. C'è un altro motivo per cui Saul diffida dei roveti ardenti. È che da piccolo ha avuto anche lui il suo. Le apparizioni, sì, l'estasi e il tormento, tutta questa specie di cose. Ci è passato. (Continua, fino all'esaurimento dei lettori).
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Stelle come polvere

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(In questi giorni Blogger sta facendo casini. In particolare, si è messo a cancellare o nascondere commenti con delle logiche tutte sue. Se vi capita di non trovare più un vostro commento, prima di gridare alla congiura dei poteri forti forse è meglio che mi scriviate, l'indirizzo è qui di fianco).

L'educazione religiosa, 1

Ognuno ha gli hobby che si merita, e se guarda indietro agli ultimi anni, Saul si rende conto che ha passato una parte cospicua del suo tempo libero ad accapigliarsi con sconosciuti su argomenti religiosi. Tutto questo – badate bene – senza provare un briciolo di ansia religiosa dentro di sé. Cioè, al di là di tutti i discorsoni sul crocefisso, o l'ora di religione, o la santità dell'embrione, ma Saul in Dio ci crede o no? Non sa, non risponde, la domanda lo annoia. È una domanda da personaggio di Dostoevskij, Saul vive nel 2010 e ha meglio da fare: del resto, davvero, il mondo si surriscalda e sovrappopola che Dio esista o no. Ma questo non è in fondo eludere il problema? Persino Stephen Hawking ha un'opinione in merito, perché non dovrebbe averla un tipo come Saul? Tanto più che il suo passatempo è scrivere opinioni, e qualcuno gliele legge, addirittura gliele premiano.

C'è una foto in giro da quest'estate, un collages di puntini che potresti scambiare per un quadro informale o la neve della tv con l'antenna staccata – salvo che ognuno di quei puntini è una galassia. Ogni galassia è un miliardo di possibili mondi, eccetera. A questo punto il problema non è neanche più se esistano forme di vita extraterrestri – è lecito supporre che esistano forme di cose che non immaginiamo e non definiremmo nemmeno vita (altrove si chiederanno se esistano forme di t$%£) Saul vive in un periodo storico in cui ogni tanto ti mettono davanti delle foto così, e poi come fai a continuare a credere al tuo Dio? Ma la domanda è viziata: qualcun altro con la stessa foto in mano potrebbe chiederti: come fai di fronte a tanta complessità, tanta immensità, a non credere proprio al tuo Dio? Saul ha perso molto tempo a cercare di spiegare che il sentimento religioso è qualcosa che non ha nulla a che fare con la scienza. Ma allora con che cosa? Forse la paura. Saul non sa se Dio ci sia o no, ma sa che l'idea di un Dio non gli fa nessuna paura. Non se lo immagina come un Occhio Spietato che lo osserva da lontano: altri sì, e ne sono terrorizzati e infuriati, sia che ci credano, sia che non ci credano: e in questo secondo caso, il loro non-crederci, la loro non-fede, è abbastanza scomoda e spigolosa da somigliare alla fede in un dio qualunque. Si tratta insomma di una variante esistenziale: alcuni (credenti e non credenti) hanno un'angoscia, altri (non credenti e credenti) non ce l'hanno. Saul è tra questi ultimi, ma ricorda distintamente degli anni vissuti tra i primi: questo è il suo unico vantaggio.

Negli anni ha formulato varie ipotesi, (che è un po' quello che fa nella vita: l'ape il miele, l'anguilla il muco, Saul le ipotesi). Alla fine si è affezionato alla più banale, e cioè: potrebbe essere una questione di genitori. Saul ha avuto genitori buoni e modesti, molto difficili da descrivere e raccontare, perché in tv e sui libri ci mostrano sempre solo genitori violenti e pazzi: la famiglia va in scena solo quando è in decomposizione, altrimenti non è un soggetto interessante. È così da cento anni, ed è destinato a continuare per parecchio: ci sono secoli di sacre famiglie da dissacrare. Nel frattempo però quelli che sono cresciuti nelle famiglie *normali* si sentono un po' disadattati: è il paradosso della, boh, postmodernità. Per tutti gli anni della sua infanzia Saul non ha veramente avuto motivo di dubitare dell'esistenza di Dio, ed esattamente di quel Dio che stava appeso alla parete, semplicemente perché chi gliene parlava era una persona buona e modesta, che non raccontava bugie, che metteva per primo in pratica, senza fatica apparente, ogni comandamento di cui chiedeva il rispetto. Gli ordini che gli venivano impartiti gli apparivano, sin dal sorgere della coscienza, assolutamente necessari: non attraversare la strada. È un tabù, certo, ma è anche la Strada Nazionale 12 dell'Abetone e del Brennero, ci passano i camion ai cento all'ora, non si fa molta fatica a credere in un Dio-Padre che ti dà un comandamento del genere. Non quel genere di Dio-Padre che ti vieta il prosciutto o i gamberi, per intenderci. Ancora oggi Saul ha per il Dio che forse esiste la stessa naturale deferenza che prova senza difficoltà per qualsiasi autorità: il Preside, il Vigile, il Capo dello Stato. Con un po' di sforzo, naturalmente, Saul può nutrire sentimenti avversi: detestare qualche poliziotto violento, dileggiare i ministri. Ma gli costa un po' fatica, e le sue velleità rivoluzionarie non arrivano mai alle estreme conseguenze di invocare l'abolizione dei ministeri, o delle polizie. Saul detesta i ministri che non sanno fare i ministri e i poliziotti che picchiano le persone invece di difenderle: non l'autorità, ma chi la incarna in modo indegno. Un borghese, gratta gratta? Saul si risponde di no, non è esattamente questione di borghesia: ci sono borghesi ansiosi, cresciuti in famiglie difficili, che per l'autorità non hanno alcun rispetto. No, davvero, è una questione di famiglia. Saul ha avuto genitori buoni, modesti e cattolici. Li avesse avuti buoni modesti e non credenti, sarebbe oggi più o meno la stessa persona, e scriverebbe le stesse cose.

Allo stesso tempo, Saul sa di avere trascorso anni difficili, in cui forse ha bordeggiato varie psico-patologie senza che nessuno se ne accorgesse. Per fortuna nemmeno lui (continua, forse diventa più interessante).
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